
Nel novembre 1864 la ferrovia Porrettana accorciò le distanze tra il Nord e il Sud del Paese da poco unificato, ma ben presto fu evidente che una linea a binario unico, con pendenze piuttosto accentuate e con un’altitudine di valico assai elevata non avrebbe risolto la crescente richiesta di muovere persone e merci.
Constatata l’impossibilità o comunque la non convenienza di modificare l’opera esistente, si rispolverò un progetto già ventilato ai tempi della costruzione della prima linea, che aveva ipotizzato una “ferrovia transappenninica che da Prato, per le valli del Bisenzio e del Setta, collegasse il cuore della Toscana con Bologna e la Padania”. Ma, come accade sovente in Italia, passò diverso tempo prima che alle parole seguissero i fatti… Nel 1882 venne incaricato del progetto Luigi Protche, che già aveva realizzato la Porrettana: anziché staccarsi alla rupe del Sasso dalla linea già esistente, la ferrovia avrebbe avuto origine dalla stazione Bologna, lato Ancona, sviluppandosi lungo la valle del Savena fino a Pianoro e, attraverso la galleria di Monte Adone, si sarebbe immessa nella valle
del Setta.
A differenza del progetto iniziale, si preferì valicare l’Appennino con una galleria di 18.032 m, alla quota di 328 m s.l.m e pendenza massima del 12 per mille.
Nel 1901 il governo Zanardelli inserì l’opera nel suo programma e si riaccesero nella popolazione dei due versanti della montagna prospettive di lavoro e di miglioramento delle condizioni di vita. Nel mese di agosto, presso il Salone-convegno dei Villeggianti di Montepiano (Vernio), l’ingegner Emilio Abati, esperto di tecnica ferroviaria, tenne una relazione sullo stato del progetto. Cinque anni dopo oltre duemila persone intervennero ad un comizio tenutosi a Vaiano per la discussione del tracciato e vi aderirono tutti i comuni della Valle del Bisenzio e quello di Castiglione dei Pepoli.
Il progetto definitivo della linea ferrata fu approvato il 18 giugno 1908 e i lavori presero inizio, ma stancamente, tanto che più volte i lavoratori emiliani e toscani protestarono per le inique condizioni di lavoro, che agli albori del nuovo secolo trovavano baluardo di difesa nelle prime amministrazioni comunali socialiste.
Nel 1913 era già stato ultimato il tratto Bologna–Pianoro e l’anno seguente alcuni tratti della ferrovia di servizio; ma le operazioni procedevano a rilento, la grande guerra fermò i lavori e alcune opere già posate (binari, carrelli…) vennero smantellate e inviate al fronte. Nel 1919 un migliaio di operai lavorava ancora ai binari di servizio e la nuova stazione di Prato
non era ancora stata iniziata.
L’avvento del regime fascista diede nuovo impulso ai lavori e dal 1924 la situazione mutò; la Direttissima divenne opera del regime, anzi l’opera per antonomasia, quella attraverso cui l’Italia avrebbe potuto brillare per potenza e perizia tecnica. Per velocizzare il traforo della galleria di valico, si realizzarono a Ca’ di Landino (Castiglione dei Pepoli) due pozzi inclinati che scendevano nelle viscere della terra: i minatori sarebbero andati incontro ai colleghi che procedevano da Sud (Vernio) e da Nord (Lagaro).
Nel volgere di pochi anni l’opera volse al termine e nella notte fra il 22 e il 23 aprile 1934 transitò il primo treno, partito da Prato alle ore 23.30 e transitato da Vernio pochi minuti prima della mezzanotte. La linea ferroviaria venne poi inaugurata ufficialmente dal re Vittorio Emanuele III.
La Direttissima diede lavoro a migliaia di operai locali e provenienti da varie zone della nazione. Furono scavati 5 milioni di metri cubi di terra (di cui tre milioni in galleria); vennero realizzati un milione e ottocentomila metri cubi di opere murarie, per un totale di diversi milioni di giornate-operaio. Terminati i lavori i cantieri vennero chiusi, tornarono alle proprie case gli operai venuti da lontano: si trattò di una vivace ma breve stagione.
I montanari non tornarono più in Maremma, in Corsica, nelle miniere della Germania e del Belgio, ma furono ancora costretti, col nuovo mezzo ferroviario, a cercare il pane lontano dalle proprie case: alcuni divennero pendolari, altri si stabilirono definitivamente nelle grandi città. La ferrovia aveva davvero cambiato la montagna. (da: Nelle valli Bolognesi 03/2014).
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