

Una tipica lavorazione artigianale castiglionese era la produzione del “bigongio”, contenitore completamente di legno, capace di contenere anche liquidi. La produzione, talora anche su larga scala, era prevalentemente destinata alla vendita verso le aree vitivinicole di pianura e di collina. I bigongi erano particolarmente apprezzati in quanto contenitori robusti, leggeri e in grado di non disperdere i preziosi liquidi prodotti dalla rottura degli acini d’uva durante le fasi della vendemmia.
In ambito locale i bigongi erano utilizzati nelle attività di lavorazione ed essiccazione della castagna, tanto da divenire un’unità di misura.
Una variante, dotata di coperchio, veniva usata per la conservazione della farina di castagno, di altre farini e di cereali. I produttori di tali contenitori erano artigiani, che integravano il reddito familiare con questa attività che si assommava ad altri lavori, anche perché la realizzazione dei bigongi era concentrata in taluni periodi dell’anno.
Nel bosco si selezionavano le piante idonee, rigorosamente di castagno, per ricavare le tre componenti essenziali: le doghe, il fondo e le fasce laterali. Da polloni di medie dimensioni, resistenti, leggeri e di facile lavorazione, si ricavavano le doghe: assicelle di spessore di circa 2-3 cm con cui si realizzava la struttura laterale.
La realizzazione avveniva direttamente nel bosco, o in altri luoghi idonei, dove le doghe ancora grezze erano impilate e vi permanevano per l’essiccazione.
Da grossi tronchi di castagno (varietà marrone) si ricavava il fondo del contenitore in un unico pezzo. Si sceglieva tale varietà legno in quanto più tenero e facilmente lavorabile. Tagliando longitudinalmente giovani polloni, si realizzavano lunghe strisce elastiche che, appena tagliate, erano sagomate per fare assumere loro una forma tondeggiante. Ai margini si effettuavano con il “coltello da stampa” appositi incastri maschio-femmina per assicurare uno stabile ancoraggio.
Successivamente, quando le doghe erano stagionate, si procedeva all’assemblaggio del bigongio: ogni doga era piallata per creare perfette pareti di contatto; il tutto veniva poi montato con l’ausilio di una sagoma esterna. Una volta completata la struttura si piallava esternamente e internamente, al fine rendere omegenee le pareti.
A questo punto si procedeva a conferire regolarità ai bordi superiore e inferiore. Poi si inseriva il fondo, alloggiandolo in una scanalatura appositamente realizzata. Si posizionavano infine le fasce esterne di contenimento.
La produzione, che in certe annate assommava anche a diverse migliaia di pezzi, veniva portata con carri trainati da animali e poi con autoveicoli ai mercati della pianura, come la celebre fiera di Pontecchio (Sasso Marconi).
Gli attrezzi utilizzati erano specifici per la realizzazione dei bigongi: una grossa pialla, che si utilizzava inclinata e, contrariamente all’uso in falegnamenria, era il legno che veniva fatto scorrere sulla pialla e non viceversa, Vi era il coltello da petto, così denominato perché nell’utilizzo l’artigiano lavorava il legno con un movimento verso il proprio petto. La botta era un coltello di forma pressoché ellittica con due maniglie; la capruggine era il particolare strumento necessario a incidere l’interno del bigongio per realizzarvi l’incavo un cui si incastrava il fondo. Non mancavano seghe, piccole accette, pennati, e cunei per spaccare il legno. Molte lavorazioni si effettuavano su un apposito panchetto attrezzato, che assicurava uno stabile ancoraggio
dei pezzi in lavorazione.