La casa dell’Ara di Castro sorgeva all’interno di un vasto possedimento della badia di Opleta (68 tornature). Queste terre, a monte del castello medievale di Castiglione (il Castellaccio, a cui pare legata anche l’origine del toponimo Ara di Castro), erano forse pervenute ai religiosi per donazione effettuata dai conti Alberti. L’Ara di Castro era l’unico edificio esistente, mentre le altre terre erano costituite da boschi, pascoli o aree coltivate. L’ente religioso non conduceva direttamente le proprie terre, ma le concedeva in locazione a persone del luogo, con contratti di enfiteusi.

Il 20 novembre 1586, per rogito del notaio Alessandro Nanni alias Predieri, Antonio Maria di San Pietro, nobile bolognese ed allora rettore, abate e commendatario delle chiese e abbazie di San Giuliano di Bologna e Santa Maria di Opleta unite, concesse in enfiteusi a Francesco del maestro Pietro Zerbini di Castiglione, contea dei Signori Conti Pepoli, 50 tornature di terra. Si trattava di castagneti e terre da coltivare in loco ditto l’Ara di Castro con una casa murata a sassi e calce, coperta di paglia, con forno, piccola capanna coperta di paglia, aia e corti. La zona si trovava a confine tra la contea di Castiglione e la comunità bolognese delle Mogne: gli estimi del XVII e XVIII secolo ricordano frequentemente terre nelle località Poggio di Gatta e l’Ara di Castro, a confine con quelle della badia di Opleta. Nel 1664 gli Heredi di Damiano da Creda possedevano una pezza di terra castagneta di due tornature posta il loco detto l’Ara di Castro, confina li beni della Badia di San Giuliano.

Alla fine del Settecento la casa risultava crollata e nel 1792 don Diodato Gnudi, moderno e degnissimo signor Abbate, Priore e parroco della chiesa abbaziale, priorale e parrocchiale di San Giuliano della città di Bologna unita a Santa Maria d’Oppieda situata nel Comune di Sparvo concesse in enfiteusi a certi Elisei e Corti di Creda … la metà di una casa rovinata sin ne’ fondamenti… e poi il fondo di una casetta affatto rovinata, in addietro ad uso di seccatore, con varie piante di castagni, all’intorno della medesima, in luogo detto l’Ara di Castro. Attorno possedevano beni le famiglie Giannotti, Ricci e Fabbri.a

I materiali dell’Ara di Castro: la ceramica graffita

Vasaio al lavoro al tornio

Gli oggetti (piatti, ciotole, catini, boccali, scodelle) venivano forgiati al tornio. Sul manufatto ancora umido veniva steso l’ingobbio, una miscela acquosa di silicato alcalino, ossido di piombo e ossido di stagno macinati, e si eseguivano a mano libera, con una punta sottile o una stecca, il disegno o le decorazioni geometriche graffiando l’ingobbio e mettendo allo scoperto la sottostante argilla rossa.

Il manufatto veniva poi cotto una prima volta, ottenendo così il biscotto e su questo si realizzavano raffigurazioni geometriche o a soggetto con ossidi metallici in varie colorazioni: verde ramina (ossido di rame), giallo ferraccio (ossido di ferro) e viola manganese (ossido di manganese). Prima della seconda e definitiva cottura il manufatto riceveva una vernice cristallina incolore che, cuocendo, formava un velo trasparente e impermeabilizzante. Sviluppatasi prevalentemente nelle regioni dell’Italia centrosettentrionale tra XIV e XVI secolo, la ceramica graffita fu largamente prodotta in Emilia (Bologna, Ferrara, Faenza) e nel Veneto (Venezia, Padova Treviso) e in Toscana (Pisa).

La ceramica da fuoco

Per la cottura degli alimenti si utilizzavano contenitori in ceramica con particolari caratteristiche che permettevano al recipiente di resistere senza rompersi, nonostante le differenti temperature che si stabilivano tra la parte interna e la parte esterna del vaso esposta alla fiamma. Per ottenere tale resistenza si aggiungeva all’argilla del materiale degrassante (sabbia, calcite o altra roccia macinata), al fine da aumentare la porosità.

Il manufatto così modellato poteva subire direttamente la cottura o essere ricoperto dall’ingobbio bianco e successivamente da una vernice trasparente o colorata (es. verde) che, vetrificando durante la cottura, ne aumentava l’impermeabilità.